Le letture del Coniglio di Febbraio 2021

Febbraio se n’è andato annoiato e stanco come un treno merci carico di dubbi e di canzoni sanremesi urlate. E tra un piccolo traguardo raggiunto e una moltitudine di cose da fare siamo arrivati a Marzo, mese che dovrebbe aprirci definitivamente la strada alla primavera ma che , in una sorta di refrain alla Truman Show, ci porta all’ennesimo lockdown. E’ passato esattamente un anno dal primo lockdown. E’ stato un anno di pesanti rinunce, un anno che ci ha messo a dura prova, un anno che mi ha debilitato (anche fisicamente). E dopo un anno nulla sembra essere cambiato. Se un tempo facevo le ore piccole davanti ad un portale web cercando di accaparrarmi un biglietto per un concerto di Roger Waters o dei Radiohead, adesso faccio la stessa cosa per cercare di prenotare il vaccino per mia madre. Stiamo invecchiando male amici miei.

L’unica costante piacevole di queste giornate è diventato il progetto “50 pagine al giorno” che anche nel mese di Febbraio si è portato in dote il suo carico di libri.

Il primo dei libri di cui vi voglio parlare è un vecchio recupero. Faccio una premessa, non sono particolarmente in sintonia con il riprendere in mano libri che ho già letto in passato. Ritengo che la vita sia troppo breve e troppi sono i libri da leggere ma, in questo caso, spinto dalla serie TV ho fatto un’eccezione. Il libro in questione è “L’ombra dello Scorpione” (ora, sull’onda del recente riadattamento per le piattaforme digitali, ha riacquisito il suo titolo originale: “The Stand”). “The Stand” lo lessi quando ancora era disponibile la versione “tagliata” ed io, troppo piccolo, troppo attratto dai videogames e probabilmente spaventato dalla mole, lo interruppi dopo una manciata di pagine.  La storia la conoscete tutti è sapete benissimo che è maledettamente attuale: una tremenda e mortale pandemia si diffonde in tutto il globo e i pochi sopravvissuti devono riorganizzare dalla fondamenta la società cercando di non ripetere gli errori commessi prima del reset. E nel fare questo sono chiamati a dover scegliere tra il bene e le tentazioni del male assoluto.

La distinzione tra il male e il bene è molto meno netta di quello che si potrebbe pensare. Il male non è qualcosa di sovrannaturale o metafisico. Sebbene nel romanzo vi troviamo la migliore caratterizzazione di un villain che io abbia mai letto (la descrizione che King ci regala di Randall Flagg rimane memorabile),  il male esiste realmente, è in tutti noi ed estirparlo è impossibile come estrarre un uovo dal guscio senza romperlo. Satana è come un puzzle e ogni uomo, donna e bambino sulla terra aggiungono la propria tesserina per ricostruire il tutto.

Il concetto di libero arbitrio applicato al male è l’aspetto più inquietante di tutto il romanzo e rappresenta l’asso nella manica di tutta l’opera di Stephen King.

Potrei parlare per ore e ore di “The Stand”, potrei scrivere pagine e pagine di articoli e questi non sarebbero altro che un mucchio di parole che si aggiungerebbero a quanto (e tanto) è stato detto.  Chiudo la mia chiosa su “The Stand” invitandovi fortemente ad immergervi nelle 1200 pagine dell’edizione integrale di questo capolavoro e di lasciare da parte la serie TV (per la quale sospendo il giudizio dopo la visione delle prime puntate, ma la sensazione non è affatto positiva).

La mia incursione nel genere Fantascienza di questo mese è stata un buco nell’acqua. Il romanzo in questione è “Metropolitan” di Walter Jon Williams, uscita di Febbraio della validissima collana “Urania Collezione”. Di questo libro ne avevo sentito parlare benissimo. Williams viene considerato dagli appassionati un autore eclettico e molto dotato , altri considerano “Metropolitan” un’opera sublime, una delle migliori cose scritte per la Fantascienza. Ammetto di non aver letto nulla di Williams prima di “Metropolitan”. Ammetto anche di essere una voce fuori dal coro: questo libro l’ho trovato incredibilmente noioso e pesante. La storia, tra l’altro, non mi è sembrata propriamente annoverabile al genere Fantascienza. Si tratta infatti di un Urban Fantasy dalle venature cyberpunk.  La narrazione è ambientata in un’immensa città che ricopre completamente il pianeta (e qui finiscono i riferimenti cyberpunk). Il sistema economico e sociale si sostiene su una misteriosa forma di energia chiamata Plasma, un fluido magico che pochi sanno padroneggiare senza provocare vere e proprie catastrofi. La protagonista del romanzo è Aiah un’impiegata del dipartimento per gli usi illegali di questa energia, un qualcosa di simile all’impiegato dell’Enel. Aiah si trova improvvisamente a controllare una riserva infinita di Plasma. Questa le conferisce poteri magici  che vanno ben oltre le proprie capacità. Da qui l’esigenza di rivolgersi a Constantine, un magnate della città,  un uomo misterioso ma molto potente con il quale instaura un’ardita collaborazione e un’appassionata relazione sentimentale. E’ proprio quest’ultima uno degli aspetti più pesanti del romanzo. La descrizione della relazione tra Aiah e Constantine si dilunga troppo e ruba spazio all’azione. Sembra di leggere un romanzo della collana Harmony piuttosto che dei Classici di Urania. Di questo libro esiste un seguito (“City on Fire”) che riprende le vicende da dove si interrompono in Metropolitan ma non sono tanto sicuro di volerlo recuperare.

Quando un editore prende un tuo racconto di una manciata di pagine, ne riduce il formato e lo veste con una copertina rigida vendendotelo a 14 euro allora significa che sei diventato un autore mainstream. Einaudi è solita in questo tipo di operazioni e stavolta ci sono cascato con l’ultimo lavoro di Don Delillo, “Il Silenzio”.  A mia parziale discolpa Signor Giudice posso dire che la sinossi di questo libro è stata una forza di gravità a cui era impossibile resistere. In questo racconto DeLillo ipotizza uno scenario in cui improvvisamente tutti gli schermi del mondo smettono di funzionare. Televisori, telefoni, tablet si spengono nel giorno dell’evento multimediale per antonomasia: l’appuntamento annuale del SuperBowl. In questo scenario alla ‘Black Mirror al contrario’ è assolutamente interessante e divertente osservare la reazione dei cinque personaggi protagonisti della storia. Personaggi che sembrano inseriti in una piece del teatro dell’assurdo, ognuno dei quali rappresenta un mistero per gli altri (per quanto il loro legame potesse essere stretto), ognuno dei quali racchiuso nell’individualità del proprio schermo.

Personaggi che si parlano addosso con monologhi filosofici sconnessi,  dialoghi serrati, taglienti e senza senso, senza volgere lo sguardo verso il proprio interlocutore. La manifestazione netta dell’impossibilità di stabile un contatto, come se la tecnologia fosse un ponte elettronico senza il quale è preclusa ogni possibilità di comunicazione.

Appare subito evidente che a Delillo non interessa spiegare le cause che hanno portato al blackout e non interessa nemmeno ipotizzare un epilogo a questa vicenda. Lo scopo è quello di mostrare la reazione umana allo spegnimento di tutte le cose. E nel perfetto stile Delilliano il tutto è descritto con una prosa molto attenta all’estetica delle parole. Una prosa che mostra e non racconta. Nulla perà che giustifica i 14 euro di spesa a mio avviso. Severo ma giusto Signor Giudice, severo ma giusto.

Se volete comunque saperne di più vi invito alla recensione in questo stesso blog.

In un’intervista del 1976 per il “Paris Review” viene chiesto a Ray Bradbury se la Fantascienza sia diventata un genere letterario rispettabile dall’establishment letterario. Bradbury rispose che gli autori di Fantascienza sono nati e continuano a vivere nella clandestinità. A distanza di oltre 30 anni da questa intervista (che potete trovare nell’antologia di racconti “Cento Racconti. Autoantologia 1943-1980” edito da Mondadori)  non ho elementi per parlare dello stato di salute del genere ma , probabilmente, qualcosa è cambiato. Secondo Bradbury gli intellettuali arrivano con 25 anni di ritardo nel prendere in considerazione la narrativa di idee (questa è personale definizione di “Fantascienza” che fornisce Bradbury) perché questi non sanno amare, non sanno provare emozioni, non sanno entusiasmarsi. Questa lunga premessa è per dirvi che il prossimo libro di cui vi parlo è di un autore molto importante ma che nulla c’entra con il genere Fantascienza e forse questo è uno dei tanti piccoli segnali di una rispettabilità acquisita che le nostre lunghe antenne marziane stanno captando.

Joyce Carol Oates  è una prolifica scrittrice americana che ha spaziato ogni genere letterario. Nei suoi oltre 100 libri ha saputo abbracciare la narrativa per l’infanzia, le poesie, la drammaturgia, la saggistica, i romanzi e i racconti, collezionando una pletora di riconoscimenti e un premio Pulitzer sfiorato. Quando un autore di questo calibro si avvicina al genere Fantascienza qualcosa di magico necessariamente accade. Io personalmente sono stato attratto da “Pericoli di un viaggio nel tempo” dal titolo che evoca una delle mie grande passioni: le storie di viaggi nel tempo.

“Pericoli di un viaggio nel tempo” è in realtà molto più di questo.

La protagonista del romanzo è Adriane Strohl, una brillante ragazzina di diciassette anni che vive negli SNAR (Stati del Nord America Rifondati) una confederazione nata sulle ceneri dei grandi attacchi terroristici dell’11 Settembre e la conseguente guerra al terrorismo. Gli SNAR sono uno stato retto da un regime totalitario in cui non è tollerata nessuna forma di dissenso. Non viene tollerata nemmeno la curiosità di Adriane la quale viene arrestata per aver posto a scuola alcune domande considerate scomode durante il discorso di fine anno. La pena per questa “terribile” accusa è un balzo temporale a ritroso nel tempo in un’idilliaca località del Midwest al fine di potersi “riabilitare” e tornare a casa dai suoi genitori accuratamente indottrinata. Privata del suo passato e della sua vera identità, Adriane dovrà convivere in questo suo nuovo mondo, straniera in terra straniera, e riflettere sulla realtà che è costretta a vivere scoprendo, suo malgrado, che questa è molto più inquietante e terribile di quanto la monotona apparenza sembra mostrare.

“Pericoli di un viaggio nel tempo” è un libro sorprendente perché prende come spunto uno scenario ipotetico e assolutamente non auspicabile (sono stato bravo a non dire la parola “distopia” vero ?) per imporre una profonda riflessione sul presente, concetto questo che è l’essenza del genere “Fantascienza”. Gli Stati del Nord America ipotizzati dalla Oates non sono poi tanto differenti da alcuni regimi totalitari che attualmente abitano il nostro pianeta. Ma, soprattutto, le riflessioni più profonde sono indotte da una sapiente commistione tra fantascienza e psicologia del comportamento. I frequenti riferimenti alle teoria Skinneriane sulle dinamiche del rinforzo della psicologia comportamentale e sull’irrilevanza della coscienza nella comprensione del comportamento inducono a chiederci se effettivamente l’uomo sia una mera macchina priva di libero arbitrio che risponde a degli stimoli adeguatamente rinforzati.

Con “Pericoli di un viaggio nel tempo” la Oates finge di guardare dentro un ipotetico futuro ma , in realtà, guarda il riflesso della verità che è davanti a noi.

Come il più scaltro e talentuoso autore di Fantascienza.

Non mi rimane che riepilogare le letture di questo mese:

  • Stephen King – “The Stand” (1978)
  • Walter Jon Williams – “Metropolitan” (1975)
  • Don DeLillo – “Il Silenzio” (2021)
  • Joyce Carol Oates – “Pericoli di un viaggio nel tempo” (2018)

Libro del mese:

Joyce Carol Oates – “Pericoli di un viaggio nel tempo” (2018)

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