Se volessimo catalogare “Solos” ed assegnargli un genere prima di sederci sul divano telecomando alla mano potremmo liquidare la questione in un battito di ciglia: “Solos è una serie antologica di Fantascienza”.
Se invece ci facessimo la stessa domanda dopo esserci gustati con attenzione la visione, non sapremmo rispondere con la stessa sicurezza.
Interrogato sul tema David Weil (Hunters), lo sceneggiatore che qui debutta come regista, ha dichiarato:
“Volevo una serie che mi riportasse al momento in cui ho capito che nella vita avrei voluto raccontare storie. Quando intorno al tavolo della cucina mia nonna mi raccontava le esperienze vissute durante la guerra oppure quando, intorno a un falò, in campeggio con mio fratello più grande , mi intratteneva con storie che mi spaventavano fino al midollo. Volevo creare un’intimità, una vera connessione tra gli attori e gli spettatori. Ho scritto la sceneggiatura a Maggio dell’anno scorso quando tutto il mondo era chiuso in casa, un tempo di solitudine e di disconnessione e questa nostra storia sembrava la serie giusta per celebrare la resilienza e la speranza dell’essere umano dopo questo anno e mezzo”.
Soddisfatti della risposta di David Weil ? Io no, troppo generica.
Cerchiamo allora di andare a fondo, seguitemi.
Una cosa è ineluttabile: “Solos” è una prodotto figlio della pandemia. Durante la pandemia abbiamo tutti sperimentato un nuovo modo di vivere e abbiamo plasmato i nostri comportamenti sulla base di come abbiamo percepito il mondo attorno a noi. E come suggerisce il titolo, “Solos” riflette su questa nuova condizione e , per voce di sette grandissimi attori, ci racconta piccole grandi storie che assieme compongono il mosaico della nostra umanità.
C’è la Fantascienza ? Si, assolutamente si. La serie è ambientata in un futuro dove il progresso tecnologico è talmente evoluto e invadente che le possibilità che offre rischiano di deviare, se non seppellire completamente, il nostro lato umano. Per questo motivo ognuno dei personaggi di “Solos” si pone delle questioni etiche alle quali cerca di darsi delle risposte.

“Se viaggi nel futuro puoi sfuggire al tuo passato ?”
I viaggi nel tempo pongono spesso questa e altre domande. Nella fattispecie Leah, una brillante scienziata interpretata da Anne Hathaway, riesce a mettersi in contatto con la se stessa del futuro e del passato per cercare di ingannare il tempo al fine di risolvere una grave questione familiare.
Noi siamo quello che le nostre esperienze hanno forgiato in noi. Provare a cancellare gli eventi o rimodellarli a nostro piacimento, qualora questo diventasse possibile, comporterebbe essere un’altra persona. Noi siamo quello che l’esperienza ci ha insegnato e pertanto sarebbe meglio godersi ogni ora della nostra vita. Un ora , come se fosse un anno.
Anne Hathaway dimostra un forte eclettismo nella recitazione: salta senza problemi da un’interpretazione tragicomica a una drammatica restituendo grande realismo e fornendo un saggio esauriente delle sue capacità recitative.
Da quello che ho capito , Anne Hathaway ha anche contribuito nella scrittura. Il suo pezzo è liberamente ispirato da piece tipo “L’ultimo nastro di Krapp” di Samuel Beckett. Purtroppo qui arrivano le note dolenti: proprio la scrittura è il punto debole di questo episodio. L’ho trovata banale e , come accade spesso per le storie sui viaggi nel tempo, pieno di buchi narrativi. Forse l’episodio più debole dell’intera serie.

“immagina di incontrare te stesso. Chi vedi ?”
A questa domanda risponderei come Tom, il protagonista del secondo episodio interpretato magistralmente da Antony Mackie (il celebre Falcon di marvelliana memoria): uno stronzo.
La reazione di Tom è assolutamente comprensibile. Insomma, mettetevi nei suoi panni: è un uomo a cui hanno diagnosticato un tumore ai polmoni e pochi mesi di vita, pertanto la sua famiglia si è adoperata per acquistare un androide del tutto identico a lui per sostituirlo dopo la dipartita.
Potrà un androide straordinariamente identico sostituire in tutto e per tutto l’originale ?
Il dialogo che viene messo in scena è struggente e Anthony Mackie è capace di una prova di grande realismo che lo porta a piangere e recitare allo stesso tempo.
Quello che ci contraddistingue nella nostra unicità sono i nostri difetti, i nostri piccoli vezzi o gesti condivisi compreso le scorreggine da allarme rosso, quelle che non senti ma che causano l’evacuamento dello stabile. Quello che ci rende unici è il nostro modo assolutamente esclusivo di essere umani.

“Quanto lontano viaggeresti per ritrovare te stesso ?”
Quando si raggiunge una certa età, il tema dell’invisibilità diventa un’ossessione.
Intendiamoci, per visibilità non intendo quella che ci ha raccontato H.G. Wells. Intendo invece quella condizione assolutamente reale che preclude qualsiasi relazione sociale.
La signora Peg, un’arzilla signora interpretata in maniera straordinaria da Helen Mirren, trova una destinazione decisamente esotica per riflettere sulle scelte fatte durante la propria vita: lo spazio più profondo.
Quante volte abbiamo recriminato sulle nostre scelte del passato. Quanto volte ci siamo chiesti come sarebbe cambiata la nostra vita se avessimo risposto a quella telefonata oppure se avessimo accettato l’invito che abbiamo sempre sognato. Se potessi tornare indietro e fare scelte differenti cosa farei adesso ? Magari avrei scritto e arrangiato “Street Spirit”, oppure starei calciando il rigore decisivo nella finale dei campionati del mondo. Chissà ?
La nostra vita e la nostra attuale condizione sono il risultato di una catena di relazioni causa-effetto che è derivante dalle nostre scelte. Perché scegliamo di rispondere ad una telefonata oppure di lasciare squillare il telefono ? Cosa ci induce a fare una scelta piuttosto che un’altra ? Scegliamo semplicemente in base a quello che abbiamo vissuto. In questo momento ho scelto di scrivere questo pezzo perché in precedenza ho maturato, in base al mio vissuto, una predisposizione che mi spinge a vedere cinema e a scriverne in maniera più o meno consapevole. E qui arriva la domanda delle domande: siamo veramente liberi nelle nostre scelte ?
La signora Peg sceglie di fare l’unica cosa saggia che la tecnologia gli permette di fare: astrarsi dal contesto ambientale in cui ha vissuto , salire su una navicella spaziale e raggiunge l’angolo più remoto dell’universo. Un contesto “neutro” e asettico da ogni tipo di contaminazione che può dirottare il proprio libero arbitrio. E qui che la signora Peg riesce a riacquistare la propria identità ma, oramai, è troppo tardi: il viaggio intrapreso è di sola andata.
Qui termina il pippone filosofico da salotto ma aggiungo due parole per dirvi che l’interpretazione di Helen Mirren è semplicemente da manuale del cinema. Ho rivisto l’episodio almeno 3 volte e , ogni volta , rimango estasiato. La colonna sonora con cui si chiude l’episodio ha su di me l’effetto di lasciare il freno a mano a far scorrere copiose le lacrime. Strepitoso.

Ho citato solo alcuni episodi, ma credo vi sarà oramai chiaro che “Solos” non è una serie semplice,non è intrattenimento. Se cercate una serie TV per ossigenare il cervello dalle scorie della giornata lavorativa allora dovrete rivolgervi altrove.
I temi trattati impongono una profonda riflessione e lavoro extra per il proprio cervello. A metà strada tra una conferenza Ted e Black Mirror, “Solos” è un’opera che tratta di come siamo noi oggi, anche se ambientata nel futuro. La natura antologica della serie viene tradita dall’ultima puntata, quella interpretata da Morgan Freeman, in cui i fili invisibili che tengono legate le varie storie vengono alla luce.
“Solos” non è una serie perfetta: la scrittura non sempre eccelle come la recitazione degli attori che vi sono coinvolti. Da questo ultimo punto di vista “Solos” è tutto quello che , come attore, avrei voluto essere ma che non sono. Il consiglio è di vederla in lingua originale, armati di pazienza, e con un rotolone Regina al vostro fianco. Perché non rimarrete insensibili a quello che vi verrà raccontato.
“Solos” , sebbene non perfetto, è un prodotto coraggioso, segno tangibile di come Prime Video voglia alzare l’asticella qualitativa del suo catalogo già di per se ricco di capolavori quali “Tales from the loop” o “Them”. Per questo motivo merita di essere visto e vissuto.
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